lunedì, gennaio 31, 2005

RELICS TO KILL FOR [recensioni]




OUTRAGE “From nightmares & myths…” (1986 Demotape, si suppone autoprodotto)

voto = **

Qui bisogna partire dagli Hellhammer: il gruppo pre-Celtic Frost tanto quotato e di moda adesso fra i black-metallers che vogliono crearsi una reputazione di veri alfieri del metallo nero, quanto schifato e denigrato ai suoi tempi (il loro 12” ricevette anche la palma di “peggior disco metal di tutti i tempi” da parte di qualche genio inglese dell’epoca).
Quello stile semplice ma potentissimo, marcio ma imponente, che prendeva il meglio dei Venom e del primo Hardcore per creare una miscela esplosiva, era in un certo senso avanti di qualche anno e chiaramente lontano anni luce da quanto girava in ambito Metal in quegli anni (si parla del periodo 82/84 per intenderci). Eppure avrebbe gettato i semi per centinaia di extreme metal bands a venire (e fra l’altro, quanti gruppi Crust-Core, odierni e non, assomigliano agli Hellhammer, quanti!).
Comunque, con la prima ondata del revival per tutto quello che fu Black e Death Metal “old school”, poco dopo la metà degli anni ’90 sono saltati fuori dal nulla tali Warhammer, tedeschi e cloni totali degli Hellhammer, dallo stile musicale (particolarmente quello dell’Ep “Apocalyptic raids” dell’84, unico vinile degli HH; esistono anche tre demotapes, peraltro abbastanza inascoltabili, vista la qualità di regsistrazione tipo segreteria telefonica coreana…) all’aspetto grafico (il logo è identico), non so i testi perchè non li ho letti. I crucchi vantano di esistere fin dall’86 e magari è anche vero, ormai non mi stupisco più di nulla, ma allora all’epoca cosa facevano? Se lo menavano con qualche schifoso pornazzo tedesco (roba tipo “Oktoberfist”…, vero Prof. B. ?!), ve lo dico io!
E questo mentre i misconosciuti connazionali Outrage sfornavano (quando suonare alla Hellhammer era considerato quasi come stuprare un bambino cieco, non adesso che è da fighi farlo…suonare alla HH, intendo!) tre demos nettamente ispirati alla musica del “martello infernale” svizzero. Io ho solo questo “From nightmares…”, che mi ha doppiato Jan degli Agathocles (scordatevi quindi qualsiasi nozione sulla copertina!) e che credo sia il terzo (ed ultimo, prima dello scioglimento che presumibilmente avrà catapultato i componenti in quel cimitero immaginario fatto di innumerevoli croci nere senza nome che rappresentano i milioni di “caduti” che han fatto la storia del Metal).
Outrage non è che fosse proprio un nome poco sfruttato, in giro per il mondo ci saranno stati almeno altri dieci gruppi recanti lo stesso monicker (fra cui quelli romani, Thrash-Metal band in cui militavano due degli articolisti di “HM”, Vincenzo Barone alla voce e un Paolo Piccini pre-Growing Concern alla batteria!), e nemmeno musicalmente, come avrete già intuito, i nostri brillavano per originalità. Eppure erano capaci di prendere a modello l’unicità dello stile marcissimo ma potente degli Hellhammer, rielaborandolo a modo loro e sfruttando al massimo le proprie capacità musicali non eccelse; ogni tanto esce qualche giro più alla Bathory degli esordi e spesso il modello si sposta dagli HH ai primi Celtic Frost (cosa più che naturale). Insomma, robetta decisamente interessante! Menziono come mio pezzo preferito il manifesto “Black Metal attack”.
La differenza fra un gruppo che si ispira (totalmente o quasi) a qualcuno e un gruppo clone è sottile, ma esiste: mettete a confronto Outrage e Warhammer e capirete!

Come al solito ho cercato di vedere se la rete poteva aiutarmi a carpire qualche nozione in più su questi illustri sconosciuti, ma dopo delle pur lunghe ricerche i teutonici sono rimasti tali: ne ho infatti trovata traccia solo nella lista personale di un metal-maniac olandese (che di loro possiede anche un altro demo e addirittura un nastro live! ...’sagerato!).
Mi sono allora affidato a quella che per noi metal-kids degli 80’s era una sorta di Vecchio Testamento, cioè “HM” (il Nuovo Testamento era chiaramente il “Metal Shock” degli inizi) e precisamente ad un numero dell’agosto 1987 (con un Ronnie James Dio urlante on stage in copertina); nella rubrica Thrashin’ a cura proprio del suddetto Paolo Piccini (e un altro cerchio si chiude!) vengono spese una trentina di righe per recensire questo demo, piuttosto bene peraltro (senza però evidenziare alcuna similarità con gli Hellhammer, Piccini parlava genericamente di un Black Metal più potente che veloce), ma nemmeno qui ho trovato ulteriori notizie degne di nota, eccezion fatta per i contatti del gruppo, che riporto (ovviamente inutilmente, ma chissenefrega!):
Udo Feirabend (un nome meno crucco no, eh?), Breslauer Str. 6 A (probabilmente ora occupato da una famiglia turca), 7530 Pforzheim (ignoro assolutamente dove sia), West Germany (ahh, BDR e DDR, che tempi!).
Se qualcuno gli scrive e quello risponde, mi fate sapere se si possono ancora ordinare i primi due demo, le toppe e gli adesivi (come recitava la recensione del Piccini)? ;-)
Le speranze che ho di vedere i demos degli Outrage ristampati su Cd o Lp è pari a quella che ho di vedere l’Inter centrare il trittico scudetto-champions league-coppa intercontinentale…eppure ‘sti kartoffen erano un bel gruppetto, ma la sfiga ha voluto che nessuna “celebrità” Black/Death Metal dei 90’s li abbia mai citati come influenza (nemmeno sono mai stati nominati di striscio!), così che nessun furbastro può riuscire a farsi qualche soldino in più ristampandone i vecchi lavori (cosa puntualmente accaduta per bands meno dotate e interessanti degli Outrage, ma con dalla loro qualche santo in paradiso, o demone all’inferno che è più indicato!)…
Ma attenzione! Notiziona (....) dell'ultim'ora: grazie ad una ricerca condotta da The Vicar in persona è stata scoperta un'oscura pagina internet teutonica dove, in una lingua misteriosa ed indecifrabile per il sottoscritto (il tedesco in pratica!), vengono spese poche righe a riassumere la "demografia" della band (esiste anche un quarto demo uscito nell'87) e addirittura a preannunciare un imminente (inizio '05) Cd di rientro baldanzosamente intitolato "Back for attack"! Sarà vero? (è l'unico sito da noi rinvenuto che ne parla)
A me, che li davo per ultra-scomparsi, suona un po' come un Matthaeus (tedeschi per tedeschi...!) che all'improvviso torna a giocare a calcio e si ripresenta nell'Inter (che poi vista l'età media di alcuni difensori attuali...he he!) !
Ehhh, fosse il mondo del football come quello del metallo...

martedì, gennaio 25, 2005

RELICS TO SCREAM BY [recensioni]



NASHVILLE PUSSY "let them eat pussy" (1998, Mercury Records, CD)
voto = *

Quando si dice “una di quelle giornate…”! Sì, proprio una di quelle. Rifletto sull’andazzo della mia esistenza e mi accorgo di quanto sono brava a galleggiare, spesso e volentieri, negli escrementi. Capita che dia la colpa a questo fottuto stile di vita così scombinato, allergico alle regole, così... rock’n’roll! Non riesco ad adattarmi a niente, niente di ciò che qualcuno vorrebbe impormi. E così me la vivo un po’ male o, almeno, così mi sembra.
Ma ecco che, nel bel mezzo del mio personalissimo “Seminario sulla gioventù”, dallo stereo arrivano quattro tizi zozzoni, alcolizzati e sudati che, a botte di riff incendiari, urlano alle mie budella All Fucked Up! E’ quello che ci vuole per riprendermi! Risveglio. Oh yeah!
E mi metto ad urlare con loro Eat My Dust, mentre sullo schermo delle mie reminiscenze da video clip scorrono fotogrammi di personaggi dalle basette folte e lunghe, vogliosi e spudorati, intenti a comunicare con lussureggianti e, ovviamente, procaci donzelle nella toilette di un qualche locale à la Blues Brothers, durante i pochi minuti in cui sul palco i Nashville Pussy suonano un rock viscerale e potente, così strafottente da far star bene!
E così, Ladies & Gentlemen, tutto per noi, l’”Inno alla gioia” dei poveri: Go Mutherfucker Go.
Oh sì, questo pezzo farebbe vibrare le corde dell’adrenalina anche nella vita dell’essere più mortifero e frigido della terra! Impossibile rimanere impassibili dinanzi ad una sorta di AC/DC che suonano, in pantaloni di pelle e t-shirt MC5, potente e sporco southern rock’n’roll al sapore di birra e whiskey, con un Angus Young in tanga e reggiseno a balconcino.
Sana attitudine punk ed energia pura è quello che si respira in questa musica. Esaltante!
Questi signori, originari di Athens, Georgia, hanno ridato vita alla mia giornata.
Me ne frego dei soliti manichini benpensanti! Oh, sì sì, stop masochistiche riflessioni esistenziali! Sono gasata, di buonumore e felice di amare il buon vecchio rock’n’roll, quello che, tanto, tira dritto per la sua strada, che non gliene frega niente di nessuno, che non scende a compromessi, quello capace di incendiare i sensi…
Go motherfucker go! Gooo! Gooooo!

venerdì, gennaio 21, 2005

COURT MARTIAL IN SESSION [recensioni demo]





MUDLARKS “r’n’r war” (2003, demo, CD-r)

voto = ***1/2

Che abbia inizio il processo. Silenzio: entra la Corte.
Iniziamo col dire che questo demo è ormai un po’ vecchiotto... pare infatti che i Mudlarks abbiano registrato e pubblicato anche un 7” nell’estate del 2004. Per quanto ne so, quindi, potrebbero essersi messi a fare ska-punk o bubblegum rock... ma atteniamoci ai fatti, Vostro Onore.
I Mudlarks sono in cinque e tre di loro sono donzelle. Membri della giuria, non ringalluzzitevi... vi vedo già, maschietti allupati, con gli occhi luccicanti al pensiero di tre punkettine minigonnate e vogliose. Per cui, prendetevi una bella dose di bromuro e ascoltate l’arringa.
Il demo contiene quattro tracce registrate dignitosamente o, comunque, in maniera consona al genere piuttosto ruvido e urticante che la band propone. Tra le loro influenze, i nostri amici, citano molti gruppi: dai Destroy All Monsters ai T-Rex, passando per i Joy Division, i Dead Boys, Bowie, gli MC5... ed è qui che, Vostro Onore, si avanza un’ipotesi di reato inquadrabile nell’eccesso di zelo e – secondo la normativa vigente – pubblicità mendace. Perché il sottoscritto sarà un po’ stronzo, ma crede che la lista di gruppi a cui i Mudlarks dicono di essersi ispirati non sia altro che fuorviante.
Insomma, io leggendo Destroy All Monsters, MC5, Stooges, NY Dolls, Heartbreakers, Radio Birdman e T-Rex, tanto per nominarne solo alcuni, mi ero gasato a mille. E invece, Vostro Onore, non ho saputo rinvenire traccia alcuna (o, almeno, nessuna traccia sensibile che non fosse puramente residuale) del sublime caos dei tempi andati, generato da gentiluomini e donzelle come Ron Asheton, Niagara, Wayne Kramer, Marc Bolan, Deniz Tek, Killer Kane etc etc etc.
A discolpa della band, però, è possibile argomentare che – nonostante la delusione delle aspettative – suonano comunque un punk stradaiolo, onesto e frizzante, con voce femminile squittente e sciabolate di chitarrismo che, a sprazzi, mi hanno effettivamente ricordato certi interventi del buon Cheetah Chrome (certo, a volte si sconfina nel solismo pseudo-hard rock, ma mica è un male: a me non fa schifo... lo dico solo per i puristi). Insomma... non è male, per nulla. Punk rock settantasettino, con sfumature più street e qualche bel riff che si fa ricordare.
Vostro Onore, sarei portato a chiedere l’assoluzione per questi giovani imputati, ma... purtroppo non posso fare a meno di notare una grave negligenza. Ancor più grave se si considera che i Mudlarks scrivono di essere stati negli USA in tour e di essere in procinto di pubblicare un album intero per un’etichetta statunitense. Parlo dell’inglese in cui sono scritti i testi. Quando non è minimale, a livelli di prima media, cade nel baratro dell’erroraccio sintattico\grammaticale... e ciò è grave.
Ah, Vostro Onore... dimenticavo: hanno vinto un premio come migliore punk band del 2003 al raduno delle etichette indipendenti (il trendissimo ed indie M.E.I.)... come dice? Non è un’attenuante, vero? Infatti. Facciamo finta che non lo abbia detto.
Comunque, ragazzi, niente male. Per un vecchio spaccapalle come il sottoscritto è una produzione un po' standard, ma siamo abituati a cose ben peggiori qua in Italì. Forza e coraggio, Mudlarks!

SENTENZA: libertà condizionale, con obbligo di lavori socialmente utili ed esamino di inglese finale.

giovedì, gennaio 20, 2005

RELICS TO GROW BY [recensioni]




THE MISUNDERSTOOD "The Lost acetates 1965-1966" (2004, Ugly Things Records, LP)

voto = &

“Before the dream Faded”... fino a ora, per ascoltare quello che - secondo opinione diffusa - è il miglior gruppo sconosciuto degli anni sessanta, ossia i Misunderstood, bisognava procurarsi questa raccolta su Cherry Red dal titolo quantomai profetico. La pazienza, però, alle volte viene premiata! Ed ecco spuntare (dopo 38 anni!) dal forziere di Rick Moe, batterista del gruppo, questi acetati che ci regalano altri 14 pezzi suddivisi tra early demos, versioni alternative e inediti di varia natura.
Nonostante la scarsità numerica delle loro incisioni, i Misunderstood hanno una storia di quelle da guinness dei primati della sfiga e non solo. In due anni due, i cinque di Riverside (California) sono passati attraverso tanti di quei casini che a raccontarli - nella migliore delle ipotesi - si fa la figura dei mitomani. Solo un pazzo come Mike Stax poteva gettarsi in quest’impresa titanica e regalarci, su Ugly Things, una retrospettiva a puntate che dopo tre numeri, quattro anni e numerosissime pagine, non è ancora giunta al termine. Fra bassisti che sfuggono al reclutamento per il Viet-nam grazie ad anomalie uditive, un giovane John Peel ancora di stanza in America che li convince ad andare a cercare fortuna in Inghilterra, cantanti che scappano dall’esercito e diventano Krishna in India, il bizzarro steel-guitar player Glenn Campbell chi va’ a suonare in Alaska e chi si suicida, c’è talmente tanta carne al fuoco da farne perlomeno un film. E infatti esiste già un progetto in tal senso...
Ok direte voi, e allora? Mica dobbiamo leggerlo questo fottuto disco! Non ci starai forse vendendo la solita fuffa che accompagna ogni tipo di ristampa da anni e anni? Non è forse capitato anche al più fetido pezzo di vinile di essere spacciato per capolavoro?
Ok, care le mie scimmiotte, tutto maledettamente vero, ma mettetevi l’anima in pace, non è questo il caso, quindi prendete una banana e lasciatemi lavorare.
I Misunderstood sono stati unici per molti aspetti: per iniziare sono stati uno dei primi casi di emigrazione al contrario... in un’America in preda alla British Invasion i nostri partono infatti alla volta dell’Inghilterra, forti dell’incoscienza della gioventù e dell’aggancio con John Peel (r.i.p.). Salvo poi, dopo un primo periodo di gloria, essere costretti a sciogliersi (vedi i casini di cui sopra) e prendere le strade più diverse. Poi, sicuramente, sono stati l’unico gruppo del genere ad adottare in pianta stabile una steel-guitar, strumento usuale nel country e non certo nel r’n’r... ma passiamo al disco.
Le primi incisioni risalgono al periodo americano e alla fase pre Glenn Campbell. Si passa da un robusto r’n’b di marca Stones/Them in pezzi come “She got me” (riproposta in due versioni differenti), a piccole gemme folk-rok come “Dont’ break me down”, pezzi alla Love prima maniera come “End of time” con un armonica da urlo, una “Bury my body” che fa impallidire la versione degli Animals, fino alla “Who’s been talking” registrata ai leggendari Gold Star Studios. Le prime avvisaglie psichedeliche arrivano con un’inedita versione di “I Unseen”, spogliata della steel guitar in favore di una 12-corde quanto mai sinistra.
Gli ultimi quattro brani vedono l’arrivo dei nostri nella Swingin' London, in pieno trip acido (festival come l’eccentrico “14 Hour Technicolor dream” erano alle porte), con un cambio di line-up e l’ingresso alla chitarra del futuro High Tide Tony Hill: il gruppo è innegabilmente nel bel mezzo di uno spostamento verso i lidi di una psichedelica a volte sognante e a volte malata. Ma non fraintendetemi, i Misunderstood non diventano mai stucchevoli nella loro ricerca, né si lasciano andare a suite e assoli masturbatori: il loro approccio alla psichedelica si palesa più nella ricerca di atmosfere sospese e acide, piuttosto che in jam alla Grateful Dead. E proprio questo è il loro lato più originale e interessante.
La sintesi Yardbirdsiana di “Children of The Sun” con lo stupendo fraak-out centrale dove a farla da padrona e’ la steel-guitar assatanata di Campbell, il garage-psych di “Find the hidden door” (coverizzata in tempi recenti dai Solarflares) dove tre voci sciolte nell’acido si rincorrono a un ritmo forsennato che rimanda ai Pink Floyd di “Lucifer Sam”, un’ altra versione “I unseen”, gemma rubino di pop psichedelico che si scorda difficilmente... e una “My mind” dove la steel guitar la batteria deragliano pericolosamente sotto le urla belluine di Rick Brown.
Lo so, potrei andare avanti per giorni a ripetervi di quanto grandi fossero i Misunderstood e di quanto questo disco meriti la vs. attenzione, ma in cuor mio spero che abbiate già capito da che parte stare.

P.S. Sia la versione su vinile che quella su cd contengono gli stessi pezzi; a favore della prima giocano però un bel vinile spesso e una copertina cartonata come non se ne fanno più, inserto compreso. A favore del cd... non mi viene in mente niente.

lunedì, gennaio 17, 2005

RELICS TO KILL FOR [recensioni]



DESASTER "Hellfire’s dominion " (1998, Merciless, Lp/Cd)
voto = *

Questo è uno dei pochissimi gruppi “nuovi” (inteso con ciò l’essere venuti fuori suppergiù dal ’95 in avanti) per cui il sottoscritto stravede!
Poi però, a dire il vero, i Desaster han sì esordito (a livello di full-length, con “A touch of medieval darkness”) nel 1995, ma la band, nata addirittura nel lontano 1988, ha mosso i primi passi “tangibili” (leggasi demos e attività live) ad inizio anni novanta, quindi “gruppo nuovo” un po’ un paio di balle…!
Comunque sia, i nostri vengono da Coblenza, Germania centrale, vicino al Benelux (questo andando a naso, quindi magari sto dicendo degli strafalcioni geografici non indifferenti!): zona paesaggisticamente pittoresca con la placida Mosella che si snoda fra suggestive colline verdeggianti punteggiate qua e là dalle rovine di antichi manieri medievali (questo passaggio da guida del Touring Club deriva unicamente dal ricordo che ancora serbo di una foto delle zone rurali nei dintorni di Coblenza che avevo sul mio atlante delle elementari…). Un paesaggio che deve aver comunque influenzato i Desaster nella loro componente medievaleggiante (che vedremo dopo).
Visto che chiaramente il 98% di voi che leggete non conoscerà per nulla questa band, redigo una breve cronistoria del gruppo: partono appunto nell’88 come terzetto dichiaratamente influenzato, fra gli altri, da Venom e Destruction (dal cui pezzo “total desaster” han preso il nome), durano lo spazio di un concerto e qualche orrendo rehearsal-tape (un paio di pezzi verrano poi ripescati sul doppio-album celebrativo del decennale), poi si sciolgono per un po’.
Nel ’91 tornano in pista col solo Infernal (chitarrista) superstite, a cui si aggiungono Okkulto (voce), Odin (basso) e tal Luggi (batteria). Fra il ’92 e il ‘97 ci saranno due demo (“The fog of Avalon” e “Lost in the ages”), un cambio di batterista (Thorim per Luggi), un 7”-split coi connazionali Ungod (interessante underground Black Metal band che fece uscire anche un Lp/Cd e un mini-cd, più qualche altro split, prima di scomparire fra i milioni di “missing in action” dell’eterna guerra metallica), l’album d’esordio (vedi sopra), un nuovo batterista (il bonzone Tormentor), il mini-cd “Stormbringer” e un picture-7”, che portano a questo “Hellfire’s dominion”, a mio avviso il loro miglior lavoro a tutt’oggi!
Se sui demo e sul primo album lo stile dei Desaster era un misto fra il vecchio Thrash teutonico (devo proprio farvi dei nomi?!) e le più recenti (all’epoca!) tendenze nordeuropee (soprattutto DarkThrone e le prime cose di Satyricon, Burzum ed Immortal), con netta preponderanza di quest’ultime (senza dimenticare le melodie medievaleggianti tessute dalla chitarra di Infernal, forse il vero “trademark” dei Desaster!), con “Stormbringer” si assiste ad una crescita esponenziale dell’influsso “Deutsch Metal” e si va a creare il Desaster-sound definitivo: un Black/Thrash dagli accenni medievali, che non rinnega l’influsso “northern Black” (anzi!), ma lo media con dei riffoni da paura che si rifanno a tutta la tradizione Thrash/Speed crucca e in generale all’immortale metallo degli 80’s! La voce di Okkulto resta tipicamente Black (ma non quegli strilli da vecchia checca isterica a cui ci hanno abituato certe “big bands” del genere! Diciamo Cradle of Filth? E diciamolo!), ma il suono è molto più “vivo” ed elettrico di quello del Black più tipico. La forza della band è senza dubbio Infernal, col suo strepitoso riffing dal feeling old-school, ma dotato di molta ma molta luce propria. Anche il look del gruppo è una via di mezzo fra Black Metal e 80’s Metal/Thrash (con Okkulto e Odin pitturati sul muso e gli altri due invece no e più biker-metallers).
Ora avete un minimo di quadro d’insieme sui Desaster: chi sta apprezzando continuerà a leggere, gli altri, beh, gli altri…non fatemi essere volgare proprio nella giornata di campionato in cui l’Inter torna a vincere dopo circa un migliaio di pareggi, dai!
Ed eccoci quindi ad “Hellfire’s dominion”, che esce per l’ottima etichetta tedesca Merciless (che ha fatto in pratica solo dischi della madonna!) verso la fine del ’98. Io ho il vinile (gatefold), ma ovviamante c’è anche il cd! Suono nitido e ben bilanciato, ma nel contempo piuttosto “underground”, che alla fine risulta, come dicevo più sopra, elettrico e vivissimo!
Già col primo pezzo si mettono le cose in chiaro: partenza sparata alla DarkThrone con un gran bel riffone di quelli che ti restano in mente, staccone in puro becer-heavy metal style dei dischi anni ottanta da scaffale delle offerte, strofa in tu-pa-tu-pa di thrasharola memoria, e poi si ripete il tutto, con in più una parte lenta dai classici tocchi medieval: insomma, “In the ban of Satan’s sorcery” da sola ha già calato il poker d’assi! Per il resto del disco cito “Expect no release”, un “velatissimo” omaggio ai primi Slayer (diciamo che sulla strofa ci si può cantare tranquillamente “evil has no boundaries”, he he!), “Teutonic steel”, anthemone a tempo medio, “Past...present…forever”, un pezzo Black/Thrash bello veloce dal feeling medievaleggiante davvero unico ed evocativo, e soprattutto la perla dell’album, “Metalized blood”, su cui vale la pena spendere qualche parola in più: trattasi di una sorta di inno metallico ultra-trascinante, in cui su una base Speed Metal le varie strofe sono cantate via via da ugole diverse: da Okkulto si passa a Wannes dei Pentacle (ottima band olandese descrivibile alla lontana come “i Celtic Frost più tecnici”: tanto a voi 98% volgo ignorante non possono interessare, no?), per poi arrivare a Lemmy (beh, chiaramente non quel Lemmy, ma l’omonimo tedesco noto a tre o quattro persone per essere stato il cantante dei Violent Force, speed-metallers autori di un discreto Lp nell’87) e infine a quel finocchione clamoroso che è il mitico Toto Bergmann, che negli 80’s era il singer (parrebbe, appunto, “gayo”) dei Living Death, altra speed-metal band germanica con una nutrita discografia alle spalle; la strofa cantata da Toto e il suo urletto introduttivo da checcona impenitente varrebbero da soli l’acquisto o la duplicazione di questo disco!!! Ah, in più i possessori del vinile, come me, si possono godere anche la bonus-track, cioè una buona cover di “Black magic” degli Slayer!
A questo album ne sono seguiti altri due (più il doppio-lp-solovinile per il decennale pieno di inediti e roba nuova, un 10”-split coi succitati Pentacle e un 7”) e un cd-live dovrebbe essere appena uscito. Sul disco più recente (e chiaramente sul live) Okkulto non è più della partita, sostituito degnamente (anche se personalmente ritengo il vecchio singer più personale, più come piace a me -cioè più blackeggiante che deathrasheggiante-, e quindi più…meglio!) da un certo Sataniac.
Sono tutti ottimi lavori di, come lo chiamano proprio i Desaster, Black Metal Tradizionale, ma mancano un po’ la magia e la novità di “Hellfire’s dominion”. Ora il gruppo ha trovato il suo stile e, giustamente, procede su quei binari: i riffs sono sempre grandiosi e i pezzi belli, ma ogni tanto fa capolino qualche “autocitazione”, lo schema dei pezzi è sempre il medesimo e già al primo ascolto sai dove ci sarà lo stacco, la ripartenza, ecc. Non che ciò sia un male, intendiamoci (lungi da me tutte quelle bands tritacazzo dagli schemi compositivi astrusi che ti lasciano in testa solo una gran confusione!), però sull’album qui recensito tutto questo non c’era ancora (e già, non poteva esserci!) e quindi io, dall’alto della mia autorità metallica di Mago del Lago del Nord investo “Hellfire’s dominion” come disco migliore dei “disatrosi” metallazzi wurstel, birra & crauti!
Spikes….Chains...Bullets....Leather.....Metalized bloooooood !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

sabato, gennaio 15, 2005

INK ON PAPER [recensioni]





ON THE ROAD WITH THE RAMONES, di Monte Melnick e Frank Meyer (2003, 303 pg., Sanctuary)

voto = **

A essere sincero, credo che i Ramones abbiano influito sulla mia formazione musicale tanto quanto la cassata siciliana può avere lasciato un’impronta nelle abitudini culinarie e alimentari degli aborigeni australiani. Sì, perché ci siamo incontrati nel momento sbagliato e, nonostante quello che ci vogliono far credere nei film, quando una relazione parte col piede storto, è fottuta fin dall’inizio.
La prima volta che li incrociai erano troppo poco hard, per i miei gusti da preadolescente metallaro seguace (senza peraltro nemmeno sapere cosa fosse) degli scampoli di NWOBHM che arrivavano in questo mortorio.
La seconda volta che ci trovammo ero vestito quasi come loro, solo coi capelli più lunghi e gli anfibi invece delle scarpette da ginnastica. Fu questo a indurmi a comprare il loro primo album, in quella giornata di settembre di poco meno di vent’anni fa (cazzo, non ci credo che ho scritto questa frase... vent’anni... doh...); il disco non mi faceva schifo, però capite che coi DRI, i COC, i JFA, gli MDC - e tutti gli altri “velocisti” che si chiamavano con una sigla - nelle orecchie, i nostri amichetti non mi davano la botta giusta. Per nulla.
Finalmente, poi, qualche annetto dopo trovai la strada per addentrarmi nella faccenda. E iniziò quello che sembrava un idillio: mi feci un po’ di LP (alcuni in duplice copia, come la mia malattia impone), diversi 45 giri piuttosto rari, scovati come un cane da tartufi in fiere e mercatini... avevo anche una scritta bella grossa, sulla cinghia della mia chitarra di allora, che recitava “Hey Ho!”.
Poi, arrivò il ciclone del pop punk e del punk rock italiano. Improvvisamente, a metà degli anni Novanta, esplose questa cosa. Tutta la penisola, da Sondrio a Lampedusa, era in preda alla Ramones-mania. Non c’era giorno che non nascesse un gruppo di adolescenti (o non più adolescenti) che immediatamente sfornavano un 7”, preferibilmente con una foto di copertina più o meno scimiottante il primo album dei Ramones. Un incubo.
E qui successe il patatrac. Da quei momenti non sono più riuscito ad ascoltare i Ramones e la vagonata di band più o meno conosciute che suonavano come loro.
Sono uno snob del cazzo? Non è da escludere. Ma è anche vero che quello tsunami di feci musicali avrebbe ammazzato un toro. O ne eri parte o lo subivi. Io mi sono spostato.
Evidentemente non era vero amore: è la mia conclusione. Prova di questo è il fatto che ho rimesso sul piatto il primo dei Ramones solo qualche giorno fa, dopo almeno otto anni di permanenza nella sua busta di plastica. E lo stimolo a farlo non è nato da sé, ma è giunto al termine della lettura del libro in oggetto (cazzo era ora che ci arrivassimo, vero? Sorry: per reclami rivolgersi a Lester Bangs, da cui copio spudoratamente, nei limiti delle mie ridotte capacità neuronali).
“On the road with the Ramones” è oggettivamente un buon libro. La presentazione grafica è eccellente: le centinaia di foto e disegni che contiene sarebbero in grado di mesmerizzare chiunque. E infatti smettere di sfogliarlo è difficile.
Ma veniamo al testo: Monte Melnick, come saprete meglio di me, è stato il road manager del gruppo per l’intero arco della loro carriera. Sulle sue spalle ricadeva praticamente tutto: gli aspetti organizzativi, i casini, i problemi personali della band... se qualcosa andava sistemato, doveva esserci lui. Sempre. E i Ramones non erano certo, a quanto si legge, dei seminaristi da portare in gita a San Pietro: insomma, il materiale da plasmare per scrivere un volume incendiario c’era tutto. Ed è proprio qui che – a modestissimo parere del vostro recensore – emerge l’unico difetto di “On the road with the Ramones”... il suddetto recensore si aspettava una visione più diretta e personale dell’autore. Un uomo che per vari lustri ha mosso i fili dell’intero backstage ramonesiano deve per forza essere una miniera di aneddoti e ricordi: materiale sufficiente per garantire il nirvana a ogni appassionato di mitologia rock’n’roll che si rispetti. Invece il nostro duo Melnick\Meyer ha adottato un approccio che inaugurò a suo tempo il volume “Please kill me” e che ha fatto innegabilmente proseliti (pensiamo solo a “We got the neutron bomb” e “Lexicon devil”, tanto per citarne due belli tosti): il puzzle di dichiarazioni a tema. Insomma, ogni capitolo del libro è introdotto da una mezza paginetta scarsa di preambolo e poi si articola in una sfilza di mini-citazioni e stralci. Certo, i personaggi che intervengono sono vari e sfaccettati: dalla band stessa a George Tabb, passando per John Holmstrom e Andy Shernoff... ma cacchio, io avrei tanto voluto leggere un’altra cosa. Più alla “Stoned” di Andrew Loog Oldham, forse.
Ok, sono paranoie mie. In ogni caso qui avrete materiale di lettura copioso e, se siete come me e non avete mai seguito la band da fanatici, anche una serie di informazioni sulle dinamiche del gruppo, che sembrano tutto eccetto che normali. Anzi.
Non so quando riascolterò i dischi dei Ramones, visto che la nostra storia d’amore non è mai decollata, ma questo libro lo rileggerò presto.
Fate voi.

venerdì, gennaio 07, 2005

INK ON PAPER [recensioni]




LA SOTTILE LINEA BIANCA, di Lemmy & Janiss Garza (2004, 301 pg, Baldini Castoldi Dalai)
voto = **1/2

E’ difficile creare una miscela musicale che sia in grado di mettere d’accordo tutti: punk, metallari, rockers, hardcorers... i Motorhead, come ben saprete, sono uno di quei gruppi che ci sono riusciti. E continuano a farlo, a un quarto di secolo di distanza dalla loro fondazione. Certo, non saranno raffinati, innovativi, sensibili o stuzzicanti, ma... alla fine sono sempre lì ed è un piacere sapere di poter contare su di loro. Sulla cartucciera di Lemmy, sul suo Rickenbecker tonante, sui suoi porri, sulla sua voce al vetriolo e bourbon, su quelle canzoni ruvide che mischiano il blues, l’hard rock, il punk e il metal in un modo così semplice e basilare che nessuno riesce però a imitare appropriatamente.
E poi, Cristo santo, se escono libri di teste di sughero come Tommy Lee, spiegatemi perché il mondo non avrebbe dovuto godere di un’autobiografia di Mr. Lemmy in persona.
Di primo acchito, uno potrebbe anche essere scettico: il concetto, in sé, forse non è dei più allettanti. Ma è con grande delizia che vi annuncio che Lemmy sa scrivere e soprattutto è dotato di una notevole dose di ironia e spirito. Certo, la traduzione in italiano a tratti è zoppicante e penso che la versione in lingua originale sarebbe più godibile, ma accontentiamoci... anzi, ringraziamo e stupiamoci che un tale libercolo venga tradotto in italico idioma, dando così un seguito alla precedente uscita della bio dei Motley Crue (e già pareva una cosa strana!).
Da Lemmy cosa ci si può aspettare? Basta guardarlo in faccia ed è subito chiaro. Droga a pacchi, donne, comportamenti e abitudini che travalicano qualsiasi elementare regola socialmente accettata.
E noi lo vogliamo così: vagabondo imbottito di pasticche nei primi anni Sessanta, chitarrista in una cover band, poi bassista negli Hawkwind più per caso che per vocazione e – infine – cantante, bassista e fondatore del gruppo con cui ha raggiunto la notorietà.
Quello che colpisce è la quasi totale assenza di compiacimento da racconto al bar (un esempio opposto? Il libro dei Crue); Lemmy racconta una notevole dose di porcate, ma lo fa in modo che te lo immagini con quel ghigno da paresi e il tono tipo: “Sì, lo so, sono tutte cazzate... però le ho fatte. Passami lo speed che mi faccio una botta”.
Sì, diciamolo: non sarà un libro che ti cambia la vita, ma si fa leggere più che volentieri. E poi Lemmy ha il rock.
Voi forse no.

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