lunedì, dicembre 20, 2004

BREAKING NEWS [segnalazione]


MATERIALE INEDITO DEI GUN CLUB

Monsignor Walter Daniels (vi devo dire chi è? No, dai... facciamo che lo sapete...) mi scrive tramite mailing list:
"I'm told there is a project underway that would go through later era Gun Club (Mother Juno onward) for unreleased songs, etc. Look forward to hearing what can be uncovered".
Quindi è vero... i sussurri e le voci che negli ultimi 9 anni si sono susseguiti non erano del tutto infondati: esistono delle registrazioni di materiale inedito dei Gun Club, risalenti al periodo che va da "Mother Juno" (1987) alla scomparsa di Pierce.

Se avete abbastanza rock nelle vene, so che inizierete a risparmiare già da ora.
Ce l'avete, vero?

sabato, dicembre 18, 2004

RELICS TO KILL FOR [recensioni]




CRUACHAN "Tuatha na gael" (1995, Nazgul's Eyrie Prod., CD)
voto = **

Repubblica d'Irlanda.
A parte U2, Pogues (peraltro per metà inglesi e di stanza a Londra), Liam Brady, Tony Cascarino e il paesaggio favoloso, cosa vi viene in mente? Magari mille altre cose, ma di certo non le due magiche paroline Black e Metal!
Tolto il fatto che sicuramente al momento nella verde isola saranno matematicamente attivi un bel po' di gruppi Black e di Metal in generale, facciamo un salto indietro all'inizio dei 90's.
Ora, sul momento non mi sovvengono metal-bands irlandesi degli 80's, mi sto spremendo le meningi, ma zero assoluto (sebbene molti irish o pirlandesi che dir si voglia ingrossassero le fila di varie NWOBHM bands -e per il profano sarò buono dicendo che la sigla significa New Wave of British Heavy Metal, l'ondata metallica britannica dei primi 80's da cui uscirono, per citare i più famosi, Iron Maiden e Def Leppard). Certo, negli anni settanta a Dublino nacquero i mitici Thin Lizzy, ma lì siamo in ambito Hard Rock: il compianto Phil Lynott e soci furono sicuramente precursori di un certo sound metallico, ma assolutamente non una Metal-band!
A questo punto però, per esserne sicuro e non fare qualche prevedibile figurademmerda, mi sono affidato a San Google e ho in effetti scoperto una NWOBHM band irlandese abbastanza famosa (che conoscevo, ma che non sapevo fosse della terra di Guinness e quadrifogli): gli Sweet Savage, di cui i Metallica han coverizzato spesso e volentieri il pezzo "killing time", che avevano alla chitarra quel Vivian Campbell, poi emigrato in Usa (tanto per non sfatare il mito dell'irlandese che se ne va oltreoceano a cercare fortuna!), che molti metallers degli 80's ricorderanno come axe-man di Ronnie James Dio sui suoi primi dischi solisti. Oltre a loro, però, nebbia totale!Ma torniamo a bomba ai primi 90's e ai Cruachan, che quando mi ci metto divago come Tosatti a 90° Minuto e spacco le palle uguale!
I nostri sono di Dublino e nascono attorno al '92. Un demo servirà a farli firmare per l'etichetta tedesca Nazgul Eyrie, misconosciuta label (stampante solo cd) che dal '94 in poi darà spazio a bands Black Metal all'epoca non troppo convenzionali e/o popolari, centrando le uscite il più delle volte (cito questi Cruachan, i cechi Amon Goeth, i finnici Barathrum, gli innominabili di Alessandria, la stampa su cd di uno dei demo degli ora famosissimi Behemoth polacchi, ecc.), ma realizzando anche qualche discreta cagata (vedasi i crucchi Dawnfall e Tha-Norr). Glisso sulle voci, probabilmente infondate, secondo cui l'etichetta in questione (ora ferma da più sei anni) avesse delle "lievissime" simpatie nazi. Voci probabilmente non vere, anche se almeno un paio di bands della sua scuderia mi parvero ai tempi abbastanza ambigue…
Comunque sia non dovrebbe essere il caso dei Cruachan, a parte una vistosa croce celtica sul retro-copertina (ma essendo questo "celtic-metal"…! …no?), mossi più che altro dalla passione per la mitologia celtica e probabilmente anche da quell'attaccamento alle tradizioni tipico di un popolo orgoglioso come quello irlandese. Il disco è dedicato "ai primi signori d'Europa", peraltro!
I nostri si presentavano con una formazione a sei in cui si distingueva anche un membro addetto ai soli flauti e pifferi celtici vari, oltre ai due chitarristi che smanettavano anche con mandolini e altri strumenti "corduti" tipici del Folk d'oltremanica e alla tastierista donna (presenza abbastanza frequente nelle bands Black/Death/Gothic/ecc. tastierate). No ragazzi, non so dirvi se era figa o meno perché sul cd non c'è nessuna foto del gruppo (piccolo inciso: fra le tastieriste Black chi si ricorda che gran bella topona era quella dei norvegesi Gehenna dei primi dischi? Aveva un nomignolo piuttosto stupido, Sarcana mi pare… -fine dell'inciso pc e anti-sessista); fra l'altro i nostri non assumono nessun "nome da battaglia" e al posto di roba tipo, che so, Frozen Demonfucker o Perverted Helllust usano i loro nomi e cognomi reali, in una fiera di O' qualcosa et similia, tipici da capelli rossi e lentiggini!
Il cd, cantato in inglese, ma con una manciata di titoli in gaelico e migliaia di riferimenti mitologici, parte con un intro strumentale che potrebbe tranquillamente appartenere ad un disco dei Pogues (!), per poi lasciar spazio ad una prima traccia dall'incedere perentorio ed incalzante simile a certi pezzi di altri celtic-black metallers, gli ottimi Absu (texani ma vantanti/millantanti origini ed ascendenze irlandesi e addirittura da nobili clan scozzesi!). Da lì in avanti tutto il disco scorre più o meno sui seguenti binari: voce sempre ringhiosa (rarissimamente pulita in qualche stacco lento e d'atmosfera), tempi spesso incalzanti e meno spesso veloci, alternanza fra parti prettamente Black e parti decisamente Folk, che a volte (e sono i momenti migliori) si sovrappongono pure (un esempio per intenderci: piffero su chitarre distorte), le due asce che ogni tanto si lasciano andare a riffs thrasheggianti, tastiere che nei pezzi Black veloci possono ricordare quelle degli Emperor. Registrazione non eccelsa, ma sufficientemente chiara e non caotica.
E' comunque un gruppo irlandese che fa capire di essere irlandese, non, che so, un gruppo italiano che sembra norvegese (e ce n'erano! …e ce ne saranno ancora, mi sa!) o uno francese che sembra svedese (anche se solitamente in questi casi siamo nel campo della "scimmiottata" bella e buona!). Rischiando la semi-bestemmia dirò poi che anche la componente prettamente Metal rimanda il più delle volte a nomi british quali i primi My Dying Bride o anche certi Cradle of Filth.
Un discorso un po' a parte merita il pezzo "Tàin bò cuailgne", dove l'influenza Black norvegese è molto marcata nella prima parte a manetta, la quale sfocia poi in uno staccone irish-folk su cui da lì a un po' si innesta un clamoroso riffone puramente Hardcore (!!!!) stile il compianto Giuseppe Codeluppi (se non sapete chi era vi consiglio una visitina al bar degli ultras atalantini indossando la maglia del Brescia), da cui si ritorna al Black veloce iniziale dominato da una notevole influenza Satyricon.
Cito anche uno degli altri due strumentali (intro a parte), che è puramente traditional/Pogues-style, anche se (prevedibilmente!) sembrano dei Pogues più "maligni"!
Fra l'immaginario lirico doveroso segnalare la figura del mitico eroe irlandese Cùchulainn, di cui anche i succitati Absu e Pogues han cantato le gesta (sebbene i secondi in maniera decisamente ironica! Ma parlando di Pogues non dimentichiamoci la feroce invettiva anti-inglese di "young ned of the hill" che si fa perdonare, e con gli interessi, qualsiasi ironia sul suddetto eroe!).
Negli anni a venire (post '95 intendo) nel metallo estremo esploderà un certo trend folkeggiante e saremo poi sommersi da decine e decine di inutili "Folk-Black Metal bands" la cui fastidiosa peculiarità era che la componente Folk (via via reclamizzata come baltica, andina, transilvana, germanica, appenninica, brunoalpina -ha ha!- e chi ne ha più ne metta) suonava sempre uguale (ok che il Folk si assomiglia sempre un po' tutto, però…eh, 'nzomma!) e addirittura imbarazzante per quanto artificiosa e trendaiola si capiva che fosse! Mentre invece la componente "celtic" di questi Cruachan, che si dimostrava sentita e personale, li rendeva, quantomeno stando a certi parametri Black, una band "true" o "true-celtic", và!
In definitiva, non un disco epocale, ma una bella prova, a suo tempo originale e particolare, nonché appunto "sentita": fossi in voi un ascoltino proverei a darglielo!
Ah, curioso sulla sorte toccata alla band (di cui non avevo più sentito nulla negli anni immediatamente successivi all'uscita del cd; anni in cui, l'avrete capito da voi, non ho più seguito il genere come prima) ho fatto qualche ricerca su internet scoprendo che il gruppo, passato anche attraverso uno scioglimento temporaneo è ancora attivo, con una formazione però cambiata parecchio e con uno stile più vicino da un lato all'Heavy Metal classico e dall'altro ad un'impronta Folk ben più marcata caratterizzata dall'utilizzo di moltissimi strumenti tradizionali. Hanno relizzato altri tre albums per l'etichetta Hammerheart/Karmageddon Media (che mi pare sia olandese). Inoltre, a chiudere il cerchio, Shane MacGowan (storico cantante dei Pogues) si è unito a loro come guest in un cd-single dello '01!!!! Ho pure visto una foto della line up attuale (in cui si distingue una bionda vocalist) abbigliata in imbarazzanti combinazioni tipo kilt e gilet di pelle su petto nudo (no ragazzi, purtroppo non la bionda, vestita pudicamente in abito bianco)…….

mercoledì, dicembre 15, 2004

RELICS TO DIE FOR [recensioni]




GUN CLUB “death party demos” (1983, bootleg CD-r)

voto = **


Certi dischi che sono un po’ come quelle fidanzate con cui si sta per poco, pochissimo, e di cui ci si dimentica in fretta. Salvo poi trovarsi, quindici anni dopo, a ripensarci e sentire uno strano pizzicore nella zona dello sterno... una roba che sembra dirti: “Ecco, finalmente, dopo tutto questo tempo, mi lascerai esprimere il mio pensiero: sei stato un coglione, perché era una bella ragazza, piuttosto intelligente, dolce e non rompipalle... e adesso pagheresti oro, argento, mirra e un rene per averne una simile vicino. E invece l’hai mollata per una che t’ha fatto un pompino in un ristorante e poi s’è scopata un tuo amico”. Solo che con le fidanzate andate non c’è verso. Sono andate (per loro fortuna, di solito). Coi dischi invece c’è sempre una seconda chance. Nonché una terza. Una quarta... e poi può scoppiare l’amore deflagrante.
“Death party” è uno di questi. Ai primi ascolti sembra un po’ banale, soprattutto considerato che s’inserisce subito dopo “Fire of love” e “Miami” e subito prima di “Las Vegas story”. Come dire... tutti abbiamo il pisello piccolo se ci mettono tra Rocco Siffredi e John Holmes. Ma non è che il gioco delle comparazioni sia sempre vincente. Infatti “Death party”, preso come episodio singolo e oggettivamente valutato, è un ottimo esempio di rock underground americano anni Ottanta.
Ora vi avverto: da questo punto in poi darò per scontato che voi conosciate già il 12” di cui si è appena parlato... e se non lo conoscete potreste (o dovreste) andare a comprarvi la recentissima ristampa su Sympathy, che include anche un bel live show come bonus. Noi ora parliamo dei demo che precedettero la registrazione ufficiale; non è dato sapere la data precisa, ma è importante il fatto che questo demo mette definitivamente a tacere le voci che volevano “Death party” come un disco praticamente improvvisato in studio e buttato lì, senza nemmeno pensarci tanto (questo per gli storiografi più accaniti).

SO WHY
La sequenza delle canzoni si apre con “So why”, versione embrionale di “The lie” con il testo parzialmente cambiato. Qui è ancora più palese la natura delle parole: un rancoroso rinfacciare al padre il fatto di non avere mai supportato le iniziative di Pierce.
Jeffrey canta, ogni tanto sbaglia ritornello e lascia notevoli buchi vuoti strumentali. Un brano che, in questa forma, ha più le sembianze di un’ossatura su cui costruire tutto... come una capanna sventrata.

DEATH PARTY
...il brano col riff più ignorante mai regalatoci dai Gun Club. Un incedere da mammuth drogato. E qui Jeffrey canta lontano, una vocina disperata seppellita dalle macerie di se stessa; il basso della Morrison e la batteria di Dee Pop martellano come metronomi al piombo, mentre la chitarra di Duckworth si concede un lungo intermezzo quasi free jazz, alla faticosa ricerca di una variazione che possa iniettare un po’ di vita in questo party della morte. Ma, per fortuna, dalla sua 335 escono perlopiù accordi dissonanti e fastidiosi, da jazzista in overdose... che con la morte si sposano a perfezione. E infatti il brano si spegne dopo gli ultimi ululati di Pierce e con una sequenza di ripetizioni del riff all’insegna della semplicità, quasi sconfinante nel banale. Ma questi sono lavori in corso: il numero di giri e la lunghezza dei brani sono faccende che si definiscono in seguito. Si lavora prima sul feeling, bestie. E qui ce n’è. Mortifero, soffocante... ma c’è.

LIGHT OF THE WORLD

Pierce è sempre più lontano. La sua voce è incisa a un volume esiziale, probabilmente si tratta di una traccia guida per gli altri strumenti. Dovete sapere che Jeffrey vomitava tutte le sere per un’ora, prima di essere in grado di partecipare alle session. Faceva preoccupare persino Chris Stein, che non si faceva certo pregare quando si trattava di roba tossica. E in questa canzone sembra di sentire l’odore di vomito alcoolico, ascoltando la sua voce. Niente filtri, nessuna sovraincisione, passaggi sbavati, cali di voce, parole biascicate... proprio come noi sfigati incidevamo i demo, una volta.
E la chitarra... quella cazzo di 335 imbottita di feedback e col suono caldo come l’interno cosce di una MILF... macina riff su riff, con quello stile inconfondibile di Duckworth, molto classico, che fonde ritmica e rifiniture in arpeggio, con una punta di riverbero a dare il giusto sustain al tutto... come uno di quei baci sulla guancia che durano mezzo secondo in più e suggellano promesse ben più succose e sgocciolanti d’umori corporei.
Finale in gloria, con il feedback della 335 a regalare l’ultima stilettata al cuore.

JH INSTRUMENTAL
Un tappeto strumentale che, nella versione definitiva, sarebbe divenuto “Come back Jim”. Un riff cattivo con una ritmica distorta e stoppata, a cui fa da contrappunto una seconda chitarra dal gusto country-roots che odora di cucina cajun, di sabbia negli occhi e di Panther Burns, per i più acculturati. Si sente che Duckworth veniva dall’esperienza di “Behind the magnolia curtain”, cristo se si sente. E questo brano, nella versione senza voce, sa più di Alex Chilton e Tav Falco, che non di Cramps... sa più di mignotta messicana che ti abborda in un bar e ti frega i soldi, che non di psicopatico newyorchese che ti ammazza nel nome di Elvis.

HOUSE ON HIGHLAND AVENUE
Questa... questa doveva essere una ballata dylaniana, negli intenti iniziali. Diciamo che come ballata alla Zimmerman non è molto riuscita. Come pezzo rock, lento e malinconico e anche un bel po’ malato, invece è riuscito a meraviglia. La versione demo ci regala un Pierce dalla tonalità spettrale: un fantasma che si sforza di non piangere, ma è troppo ubriaco anche per ricordarsi perché dovrebbe piangere... e confuso si trascina fino alla fine del pezzo, tra improbabili frazioni di vibrato e segmenti di declamazione in monotono. Da brivido. E, per buona pesa, con parole differenti dalla versione su 12”.
Speciale il lavoro della chitarra, ancora una volta... senza nulla togliere al genio istintivo di Kid Congo Powers, si sente che Duckworth era un musicista con un solido background. Sì. E non ditemi che non conta un cazzo... non sto parlando di assolo a 1000 all’ora e tapping selvaggio. Parlo di feeling e di modo di suonare determinati riff, di finezza e rabbia mescolate senza necessariamente buttare il tutto in casino, che fa sempre figo e non impegna.

Questa formazione, ossia il quartetto Pierce, Patricia Morrison, Jim Duckworth e Dee Pop, durò lo spazio di un’annata scarsa. Giusto il tempo di pubblicare il 12” e fare un tour (documentato da un video ufficiale registrato a Macnhester, uno dei due “Live at the Hacienda”). Poi tutto scoppiò,come del resto era prevedibile... ma da questo intermezzo rapido e travagliato sarebbe scaturito “Las Vegas story”. E ditemi che non è nulla...
I demo di “Death party” circolano su cd-r in versione ultra-bootleg tra i traders. E il discorso è ancora una volta questo: se avete il sacro fuoco li cercherete e ne sarete colpiti. Se avete già detto “che palle Valentini con ‘sti Gun Club” andate a comprarvi gli Yeah Yeah Yeahs, l’ultimo dei Green Day o un bel bootleg dei Ramones, che vi fa bene.

lunedì, dicembre 13, 2004

RELICS TO SCREAM BY [recensioni]




KYUSS - "...And The Circus Leaves Town" (1995, Elektra, CD)
voto = &

Mi chiamo Gloria Lewis…
... e sono una canzone dei Kyuss. Mi trovate nell'album ...And The Circus Leaves Town come traccia #4.
Sono ipnotica e sognante come certi paesaggi del deserto californiano.
Produco un suono denso e saturo come l'aria che si respira nei bar serali fatti di nicotina, alcool e luci basse.
Odoro di oceano e di terra bruciata. La mia luce è plumbea e avvolgente, polverosa ed accogliente, lisergica ed esaltante.
Dentro di me pulsa il battito dei vecchi sciamani dell’hard rock. Il ritmo sputato dalle pelli rievoca danze tribali e sogni erotici, fuoco e sudore, sole e allucinazioni.
Sono una bocca di donna avida di saliva e di umori blues. Eccomi a voi, come la baldracca e l'amante perfetto che popolano i vostri sogni.
Insieme alle mie sorelle posseggo la chiave per farvi entrare in una dimensione spaziale, immensa, affascinante, lussuriosa, trascinante, eterea.
Prego, accomodatevi pure…

giovedì, dicembre 09, 2004

RELICS TO GROW BY [recensioni]




THE MAHARAJAS "Unrelated statement" (2004, Low Impact, LP)

voto = *

“La vita alle volte e’ un po’ puttana”
Chissà quante volte Jens Lindberg e Mathias Lilja lo hanno pensato e se lo sono detti, magari sfogliando distrattamente qualche rivista musicale trendy infestata da sedicenti garage-rockers spettinati ad arte. Eh già, perché con tutta questa vera o presunta fame di r’n’r, un pezzetto della torta dovrebbe andare anche a questi due signori.
Ma andiamo per gradi e facciamo un salto ai primi anni ottanta del post-punk, della new-wave imperante, del pop edonista e di tanti altri abomini, ormai ampiamente rivalutati…
Non tutti, però, seguivano la linea e dalle cantine della California, passando addirittura per la ns. penisola (Sick Rose, Pikes in Panic, Birdmen of Alkartraz), fino alla Svezia dei Nostri, una nuova generazione ritornava a seguire le regole auree scritte dalle garage-band americane ed inglesi nel ventennio precedente. Di li a poco termini come garage-revival e paisley underground sarebbero diventati di dominio pubblico anche sulle ns. riviste come Rockerilla o l’allora Mucchio Selvaggio.
“Le cose sembrano cambiare e invece non cambiano mai… quando ho iniziato tutti impazzivano per la new-wave e mi ricordo ancora che noi Crimson Shadows o i Wylde Mammoths dei fratelli Maniette eravamo visti come matti… poi ho suonato con gli Stomachmouths e i Maggots. I Maharajas dovrebbero essere la mia band definitiva”.
Beh Jens, ora sono tutti di nuovo in trip con la new wave… si sono riformati pure i Duran Duran… e tu Mathias? Eri lanciato con gli Strollers e poi puff... sogni di gloria andati a puttane anche per voi. Eh già perchè a cercare di sollevarsi dalla mediocrità alle volte si rischia di fare la fine di Icaro, specialmente se non hai santi in paradiso.
Ehi voi! Cosa state facendo? Chiudete la mandibola e non sforzatevi troppo di pensare. Non vorrei correre il rischio di farvi bruciare qualche neurone alla prima uscita. Però, per una volta, date retta a uno stronzo che non straparla di new sensations e cazzate varie.
I Marahjas non sono giovani. Non sono carini. Non cambieranno il corso della storia della musica e soprattutto non diventeranno mai i nuovi Hives. Anche perchè dubito fortemente che ciò rientri nelle loro priorità. A questi signori non frega niente dell’attualità, dell’hype e del glamour d’accatto di Rolling Stone, perchè per quelli che sono nati ai margini dell’impero queste cose fanno ridere solo a pensarci.
I Marahajas sono rimasti, assieme a pochi altri, uno di quei gruppi capaci di scrivere canzoni ferme ai medi sessanta, senza scadere nel citazionismo fine a se stesso e nei luoghi comuni più scontati.
Nel loro precedente disco “H-Minor” era la componente folk New England a farla da padrone, con dolci melodie autunnali che ti cullavano nell’ascolto e intrecci di voci di Byrdsiana memoria.
Nel nuovo disco Lindberg e soci mischiano le carte, riproponendo in parte quello che già sapevamo di loro (vedi sopra), aggiungendoci un pizzico di psichedelica, punte di delirio/divertissement come in “Papa’s Dead”, schegge impazzite di freak-beat come “I’m fooled again”, pezzi come “Please leave a message” che uniscono riff alla “Jumping Jack Flash” con intrecci vocali alla Beatles, e una ballata come “Dead” che chiede solo di essere ascoltata.
Siete pronti?
Già perchè alla fine Jens e Mathias il loro lo hanno fatto. Se non lo avete capito, questo è un gran disco, capace di carezzarti con una mano e fustigarti con l’ altra. Ora sta a voi dimostrare per una volta di che pasta siete fatti...


mercoledì, dicembre 08, 2004

RELICS TO KILL FOR [recensioni]




MAYHEM "De mysteriis dom Sathanas" (1993, Deathlike Silence Productions, LP/CD)
voto = &

Il fascino malsano che questo disco sprigiona ancora, a più di dieci anni dall'uscita, è indiscutibile! Disco che uscì postumo dopo che il bassista del gruppo uccise il chitarrista/leader, mentre il secondo chitarrista (che non ho mai capito se poi su 'sto disco ci ha suonato o no!) faceva da palo, e con metà delle liriche scritte dal precedente cantante: quel Dead che tenne fede al suo nomignolo suicidandosi, qua rimpiazzato da un ospite d'eccezione, l'ungherese Attila Csihar (che negli 80's vocalizzava nei black-thrashers "budapestesi" Tormentor e nei primissimi 90's negli elettronici Plasma Pool). I personaggi summenzionati sono nientepopodimenochè i signori: Varg Vikernes a.k.a. Count Grishnack della one man-band Burzum, qui nei panni di bassista ed omicida; Euronymous, fondatore e leader storico dei Mayhem, alla chitarra e, sfortuna sua, nei panni della vittima. Blackthorn, proveniente dalla cult-band Thorns, come secondo guitarist e palo (si dice a sua insaputa). A chiudere questa line-up maledetta il succitato Attila "flacello di ddio" e il drummer-extraordinaire Hellhammer.
La trasformazione dei Mayhem dal gruppo Death/Thrash caciarone dai testi becerissimi che erano negli anni ottanta (vedasi il 12" "Deathcrush"), nella band guida ed ispiratrice del movimento Black Metal norvegese che tanto fece parlare di sé all'inizio dei 90's fu qualcosa di decisamente interessante!Nell'88, più o meno, c'era questo gruppaccio di giovinastri sui vent'anni dal look tipicamente 80's metal-style (chiodo, giubbetti e pantaloni di jeans sfasciati, birre scadenti alla mano, capello lungo e pure lo spettacolare mullet del primo batterista!) che aveva buttato fuori un paio di demo a cavallo fra l'86 e l'87, di cui uno poi ristampato sul 12" di cui sopra, e che si trovava con metà band da rifondare dopo l'uscita di scena del suddetto mullet-drummer e del cantante del secondo demo (quel Maniac, ora tornato dietro il microfono del gruppo). Per farla breve, dopo qualche rimpiazzo temporaneo, i due superstiti - lo stalinista dal culo chiacchierato Euronymous (chitarra) e Necrobutcher (basso) - trovarono un batterista della madonna (ancora un po' acerbo all'epoca) subito ribattezzato Hellhammer; dalla vicina Svezia importarono invece il cantante dei Morbid (quelli del grandioso cult-demo "December moon", che fra l'altro avevano pure due futuri Entombed in formazione), tale Dead, forse l'unico vero misantropo tra i tanti fakes della scena Black, che finì sparandosi una fucilata in testa. Prima però il gruppo compì la svolta, passando dal teronissimo Deathrash di cui sopra al Black Metal, inventando praticamente dal nulla un nuovo modo di fare Metallo Nero (sebbene, rispetto a molte altre Norse bands che seguiranno, lo stile dei Mayhem mantenesse sempre qualche debito nei confronti delle black-thrash bands degli 80's, specie nei primi brani composti dopo la svolta di cui sopra) e sostituendo gli ignorantissimi testi a base di budella, motoseghe e mignotte, con le liriche visionarie di quel mezzo matto di Dead: veri e propri affreschi evocativi a base di nebbie transilvane, lune ossessionanti ed esistenze post mortem.Da ricordare anche che i nostri (seppur limitatamente ai soli Dead ed Euronymous) iniziarono a fare uso di quello che poi diventerà il classico face-painting Black Metal, su ispirazione, pare, dei grandissimi Sarcofago (black/death band brasileira) degli inizi e anche dell'altrettanto grande King Diamond, nonché dei Kiss (di cui si dice che Euronymous fosse fan). Purtroppo di questa formazione restano solo due pezzi in studio usciti su una compilation svedese e l'Lp live "Live in Leipzig" (una specie di bootleg ufficiale dal suono così così), più un buon numero di rehearsals e live immortalati su una serie di dischi bootleg usciti per lo più dopo l'omicidio di Euronymous.
Messo via Dead e lasciati da Necrobutcher, i nostri tentano un infruttuoso rimpiazzo con tal Occultus (voce e basso), per poi reclutare il Conte come bassista e iniziare come trio (o quartetto, dipende se Blackthorn c'era già o meno) a registrare l'album che annunciavano ormai da anni. Terminate le infinite registrazioni successe quel che successe fra Varg ed Euronymous (leggende metropolitane a parte, pare per becere questioni di soldi e/o per una donna contesa fra i due e con cui il secondo, in barba alle voci di popolo che lo davano per piglianculo, finì per mettersi assieme) e dopo qualche mese il disco uscì sul mercato (con dei credits menzionanti i soli Euro ed Hellhammer) in pieno boom Norse Black Metal, amplificato da azioni tipo i roghi delle chiese e piacevolezze simili.
Il fenomeno meriterebbe un'analisi molto approfondita: un manipolo di mezzi disgraziati creano un discreto caos in una sonnolenta socialdemocrazia nordeuropea nel nome dell'inedita coppia Satana-Odino mischiando satanismo da fumetto, paganesimo spiccio, anti-cristianesimo di facciata, un pizzico di beceraggine neo-nazi, bizzarre interpretazioni della storia norvegese, un po' di vichinghi che male non fanno, e giocando a chi la sparava più grossa, condendo il tutto con un bel po' di azioni dimostrative. Fatto sta che, azioni di facciata a parte, quella scena buttò fuori un cospicuo numero di band eccezionali (cito Dark Throne, Satyricon, Ulver, Emperor, Immortal, Arcturus, Enslaved, gli stessi Burzum e Thorns, ecc.ecc.), ridefinì lo stile Black (musicalmente e attitudinalmente, non che nel secondo caso fosse un bene, ma ci si divertiva parecchio all'epoca a leggere le sparate dei suddetti gruppi, specie di quelli più ironici!) e regalò parecchie ore di ottima musica a tanti metal-maniacs sparsi per il globo terracqueo!
Ma veniamo al disco dei Mayhem, se no qua facciamo notte (a parte che quassù ai confini dell'impero sono le 16:50 di una fredda domenica novembrina ed è già buio! Altro che Norvegia!).Otto pezzi, quattro più vecchi (1988/91) e quattro più nuovi (1992): suono di chitarra (che siano due chitarristi o uno solo) gelido e tagliente (ma non il "frigorifero-style" dei Dark Throne, questo è più cupo e comunque più curato e "prodotto", nonché piuttosto originale e personale: una sorta di Euronymous-sound, senza dimenticare che comunque anche il suono dei primordi Throns di Blackthorn era particolarissimo), riffs micidiali (pare alcuni composti anche dallo stesso Blackthorn, fra parentesi un altro elemento non troppo a piombo!) e armonizzazioni raggelanti (differenza con molti/troppi gruppi Black: i riff, quelli veri, che moltissimi non hanno!). Basso di Varg (non date retta alle voci che dicono delle sue parti reincise da Hellhammer per volere della famiglia di Euronymous! Come direbbe Mughini: ma daaaaaaai!) molto presente, cupo e che ritocca qua e là alla grande (differenza n° 2: il basso nel Black spesso è lì a far numero!). L'infermiere Hellhammer che ogni tanto sparerà anche dei deliri nazisti da far impallidire pure i No Remorse o la buonanima di Ian Stuart, ma è un batterista devastante, tecnicissimo e precisissimo che tiene dei ritmi inumani per praticamente tutto il disco, doppia cassa inclusa! Infine Attila (a come atrocità, doppia t come terremoto e tragedia, ecc.) con una prestazione vocale strepitosa, originale e particolarissima: che urli, che sussurri, che melodizzi, che canti pulito, che grugnisca, ecc.ecc. mette sul piatto uno stile unico, ancora (per quanto ne so io) ineguagliato in ambito Black. Tutti i pezzi sono strafighi, ma ne menzionerò particolarmente due: "Life eternal", rallentata (secondo me l'ispirazione fu "Enter the eternal fire" dei Bathory, influenza dichiarata dei nostri!) per quasi tutto il brano prima di esplodere in un finale velocissimo, e con un testo (leggenda vuole lasciato da Dead accanto al proprio cadavere) emozionale sul senso della vita (no Monthy Python relations!) e della morte. E la title-track, molto progressiva e dominata da dei vocalizzi puliti da brivido in latino (!!!), pezzo che mi fa rimpiangere quello che Euronymous avrebbe combinato nei futuri dischi dei Mayhem se quel bambo di Varg non lo avesse ammazzato.
Il problema dei Mayhem di questo disco è che in pochi ne hanno sottolineato il valore musicale per dare spazio alle vicende extra-musicali, quindi oggi lo sottolineo io, e che cazzo!Trovatelo, ascoltatevelo (o se già l'avete riascoltatevelo) e se non vi rendete conto di quanto dia merda a chiunque, beh, il mondo è pieno di Black metal bands schifose su cui potrete riversare la vostra incompetente ammirazione, no?
Per i non addentro al genere, purtroppo i Mayhem hanno continuato anche dopo la morte di Euronymous, "grazie" ad Hellhammer che ha riportato in formazione il singer del primissimo ep (Maniac) e il bassista "storico" (Necrobutcher, che nelle prime foto promozionali post-rientro ricordava paurosamente Claudio Bisio nei panni del procuratore Micio!) e ha reclutato alla chitarra tal Blasphemer. Dischi ne han fatti e sono ancora attivi adesso, fra squallide storie (vere o presunte) di spaccio di droga, puttane messicane mestruate e matrimoni celebrate in chiese cristiane, ma tutto il fascino malsano della band è andato perso e i Mayhem di adesso sono solo un gruppo come tanti / troppi altri.

PS = eventuali inesattezze nel riportare gli avvenimenti ci sono di sicuro, ma citando il Professor Scoglio "evitate critiche ad minchiam", grazie!

venerdì, dicembre 03, 2004

RELICS TO DIE FOR [recensioni]




IAN HUNTER "all american alien boy" (1976, CBS, LP)

voto: **

Mott e Mott the Hoople. Do you remember, honey? Vi ricordate di questa band? Ok. Lo so. La maggior parte di voi non l'avrà mai voluta neppure ascoltare. E' un errore comune e potreste essere anche perdonati... MA... è necessario rimediare al più presto.
Un uomo o una donna non possono fare a meno di un brano come "The ballad of Mott the Hoople" per potersi definire tali. Altrimenti non valgono mica molto... anzi, nulla. Fate voi.
Dopo i Mott the Hoople, il carismatico cantante Ian Hunter intraprese la carriera solista (che continua tuttora). E che carriera.
Avete abbastanza palle, anima e cuore per ascoltare questa musica? Rispondete. Oh, piccolini... non lo sapete... certo, non avete idea di cosa rispondere. Allora vi serve una descrizione esauriente della materia, vero?
I solchi di questo suo secondo album sono un sublimato di rock, rock'n'roll, tristezza strisciante e disillusione. Un Bob Dylan con gli occhiali a specchio e il chitarrone elettrico, un Blind Lemon Jefferson che cavalca la tigre del glam rock con un piglio punk, senza scadere nel ridicolo.
Iniziate a capire?
Ok, un ultimo tentativo per venire incontro alle fascie meno dotate. Avete presente Jeff Dahl? Ecco, io se fossi Ian Hunter lo citerei per plagio di immagine. Per non parlare della musica. Solo che il buon Jeff è più punkettaro, laddove Ian è il progenitore e, per questo, più compassato, emozionale e profondo. Come dite? Non vi servono i progenitori?
Perfetto. Ma voi, allora, a cosa servite?




GUN CLUB "Miami" (2004, Sympathy, CD reissue)
voto: &

Il giorno che riuscii a procurarmi la mia prima copia di questo disco, dopo anni di ricerche, non fu esattamente uno dei più felici della mia vita. Era il 1997: il materiale dei Gun Club si trovava piuttosto facilmente... diciamo con la stessa facilità con cui ognuno di voi uscendo di casa poteva trovare 500.000 Lire infilate sotto allo zerbino.
Avevo cacciato questo fottutissimo pezzetto di vinile per anni e - senza, peraltro, neppure l'aiuto di internet - non ero mai riuscito a metterci le zampe sopra.
Dicevo, comunque... quel giorno d'estate ero appena stato licenziato da una cooperativa di figli di puttana mafiosi e tangentisti. Faceva caldo. E me l'ero appena preso dolorosamente in quel posto; certo, andandomene avevo riempito di cemento in polvere le vaschette delle lavatrici e avevo svaligiato l'armadietto dei medicinali della comunità, ma... erano magre soddisfazioni. La dura verità era che avevo perso una fonte di reddito e guadagnato una fonte di rompimento di coglioni senza precedenti, in casa.
Non ce la facevo a tornare dai miei a sorbirmi l'ennesima menata tipo: "Tagliati i capelli, coi tatuaggi non troverai mai lavoro, fai il concorso, vestiti bene, piantala con 'sta musica, è ora di mettere la testa a posto, sembri un drogato, guarda il figlio di XXX...". Proprio non ce la facevo. Così me ne andai a fare un giro in un negozio di dischi. Ero appena entrato quando il proprietario mi allungò una borsa bianca dicendomi: "Toh, questo è per te; un regalo". Dentro a quella borsetta c'era una copia di "Miami".
Cazzo, "Miami".
Me ne andai a casa in trance, mi sorbii una quindicina di minuti di menate senza fare attenzione, poi ascoltai "Watermelon man" e me ne uscii di casa sbattendo la porta mentre mio padre bestemmiava con mia madre dicendo che ero un fallito testa di cazzo.
Quella sera mi ubriacai da solo al chiosco dei camionisti, bevendo Campari e gin.
Poi andai al Guercio, ma non scesi neppure dalla macchina: un paio di auto degli sbirri stavano fermando tutti quelli che si dirigevano verso il centro sociale e un paio di miei amici, già fermati e in attesa di controllo, provvidenzialmente mi fecero segno di andarmene.
Vagai da solo per un po' e finii al Bar Nizza per un paio di Borghetti della staffa. Tentai di chiamare C per farmi fare un pompino, ma la schifosa era in vena di preziosità. Certo, proprio lei che qualche sera prima mi implorava di infilarle una bottiglia mezza piena di Beck's nel culo.
E finii a casa distrutto dall'alcool.
Ecco, forse a voi sembrerà tutta un'accozzaglia di stupidaggini. Ma "Miami" per me è questo. E' il dramma della provincia, il dolore del sentirsi come la merda infilata nel battistrada di uno scarpone, la consapevolezza lancinante di sapere trovare conforto solo in cose che sono considerate disprezzabili e dannose.
"Miami" è il diavolo che si traveste da cocktail per infettarti da dentro.
"Miami" è la donna che ami e che, appena finito di scopare, ti dice: "Devo fare in fretta perchè se no il mio fidanzato si arrabbia"
"Miami" è la donna che scopi così per semplice necessità, per ammazzare il dolore... e che non hai il coraggio di guardare in facciase non di sera e al buio.
"Miami" è essere licenziati per avere detto quello che era giusto alle persone sbagliate. E andarsene con le tasche piene di psicofarmaci rubati.
"Miami" è guidare da soli, con la fronte sudata e il cervello spappolato dal gin, sapendo che ovunque andrai sarà una merda. Ma da qualche parte devi pur andare.
"Miami" è il blues, il punk, il rock. E' l'inferno reso capolavoro.
Se solo queste cazzo di ristampe della Sympathy avessero la copertina conforme all'originale... comunque, non fate gli snob indie del cazzo. Perchè questo disco è un'esperienza. E se non la fate, beh... dove credete di andare?

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