mercoledì, gennaio 17, 2007

The Mainliners - s\t (2004, Crusher Records, 7")

Una seratina che è lì-lì per iniziare, buio fuori, gli anfibi che per qualche motivo restano addosso, la cintura borchiata si allenta ma non si sfila.
Il momento è cruciale. Potresti frugare in quel ripiano della libreria e riesumare quei 3-4 grammi d'erba, oppure svuotare la bottiglia di Merlot. Ma anche tutte e due le cose.
E poi finisce che ti butti sul vino, perchè la stanchezza ti ovatta i movimenti e rollartene una non sarebbe proprio cosa. Mentre ti versi il primo bicchiere e guardi il rosso rubino, ti viene in mente che hai mezza dozzina di 45 giri in un angolo della stanza, che attendono una recensione. Li ripeschi e il primo è firmato dai Mainliners. Lo piazzi sul piatto senza pulirlo, dai un calcio allo stereo, per sbaglio, e il disco parte da metà.
Un fulmine.
Lo senti finire e ricominci. Sempre lato A. Una volta, due, tre, quattro. Non è che lo fai perchè sei un recensore maniacale. Normalmente basta un ascolto solo e veloce. Ma qui, per dio, non si riesce a staccare la puntina dal solco. Lato A. Ancora. Lato A. E siamo a sette volte.
Un brano perfetto di garage, soul, r'n'b di quello scuro, ma teso e pericoloso. I Them e gli Animals che jammano con gli Stones in un club di Bangor, tra pinte, gente che scopa nei cessi, accoltellamenti nel vicolo appena fuori dal pub. Una canzone che trasuda rabbia e dolore: il rumore di qualcuno che sta esplodendo dentro.
Come la lettera che ti dice che la tua ex ha abortito e il figlio era tuo e non ne sapevi niente, come il suono di un treno che si porta via il disco più importante della tua collezione, come la crepa sulla tua chitarra preferita che si allarga, come il rumore del radiatore che scoppia in un incidente, come lo strusciare delle suole in quel pomerigio in cui hai perso il lavoro, come il tono gelido di una voce che ti dice "non chiamare più", come il tonfo della portiera che si chiude per l'ultima volta dopo il concerto d'addio del tuo gruppo.
Tutto questo con un filo sottile nero e tagliente a tenere insieme l'intera faccenda. Perchè prima o poi qualcuno lo farai pagare per tutto questo, vero? E allora tieniti stretta la tua sacca di cuoio, perchè dentro hai un trucchetto che si chiama "Muori bastardo". Quando lo tirerai fuori ci sarà da ridere... anche se magari ci resterai anche tu. Ma che soddisfazione.

Il lato B? Ma cosa vi interessa del lato B, dopo un brano del genere? Comunque è un pezzo in puro stile Stones, un rock garage a presa rapida con qualche citazione all'inno "It's only rock'n'roll". Ma, ascoltatemi davvero: lasciate perdere il secondo lato. Rimanete sul primo. Sempre.

Maledetti svedesi.

mercoledì, gennaio 03, 2007

Victor Bockris - Keith Richards (Omnibus Press, 2006)

Provvidenziale, questo ristampone in paperback piuttosto economico che la Omnibus sforna a 14 anni dalla prima uscita del volume originale. C'è da dire che nei paesi anglosassoni il libro ha avuto ampia diffusione e diverse edizioni, mentre da noi nisba. Tant'è vero che anche questa ennesima incarnazione è in lingua inglese, recuperata in quel di London in un Virgin Megastore, reparto novità in offerta speciale. Ma tant'è: scimmie siamo e scimmie resteremo, e se gli editori più illuminati qui da noi arrivano a tradurre Please Kill Me nel 2006 (ricordo di averlo proposto almeno nel 1996, anche a editori "specializzati" - vero Arcana e compagnia bella? - ma nessuno mi ha mai degnato nemmeno della soddisfazione di capire ciò che stavo dicendo: massa di buoi spongificati) ce lo meritiamo. Ampiamente. Totalmente.

Fanculo.
E allora, eccolo qui, servito caldo caldo: questo è il tomo che vi regalerà diverse ore di svago, sorpresa, rabbia, mitologia e rock'n'roll. Stiamo parlando della bio di Mr Richards scritta e curata da uno dei massimi biografi rock che mai hanno passeggiato sulla crosta terestre, Victor Bockris (già autore di volumi su Patti Smith e Lou Reed, tanto per citarne solo un paio).
Qui c'è praticamente tutto, con particolare enfasi sui periodi più bui (gli anni Settanta) sono abbondantemente trattati: ed è il bello della faccenda). Ciò che più impressiona è l'indefesso zelo e la costanza con cui Keith si è impegnato nel tentativo di annientarsi e - nel contempo - minare la carriera di quella macchina da rock e dollaroni che sono gli Stones. Ammirevole, nel suo disprezzo per tutto ciò che qualsiasi persona al mondo non oserebbe neppure sognare nei più sfrenati momenti di fantasia. Roba da far quasi rabbia... e, in effetti, al decimo arresto di fila per possesso di eroina (nell'arco di un paio di mesi) mi sono anche io un po' incazzato. Dicevo: ok, va bene, fai quello che vuoi fare, ma almeno usa mezzo grammo di cervello e non farti beccare con l'automobile carica di roba mentre vai a zig-zag per strada.
Poi, però, pian piano si capisce: non poteva che andare così e Richards ha semplicemente fatto ciò che andava fatto. Perchè ogni singolo grammo che si è sparato, ogni litrazzo di Jack Daniel's aperto con un colpo di pugnale e ogni pacchetto di sigarette fumato, è stato immolato per il rock'n'roll.
Amen.

domenica, novembre 19, 2006

Mark Putterford - Phil Lynott: the rocker (Omnibus Press, 2002, libro)

La fascinazione per i Thin Lizzy mi ha preso così per caso, un mattino di settembre. E' una di quelle cose che ti trovi addosso, aggrappata come una scimmietta e non ti spieghi bene il motivo. Soprattutto se per almeno i 20 anni precedenti non ti era mai venuto in mente di promuovere i Thin Lizzy a una categoria mentale più elevata rispetto a quella delle "band-che-non-mi-interessano".
Ma spesso le categorie sono cazzate definite a priori. E infatti... eccomi qua, come un deficiente, a decantarne le lodi e a tentare di convincere qualcuno a starmi a sentire, mentre parlo di una band a cui non ho mai dato un centesimo. E a cui ora di centesimi ne sto dando non pochi, comprandomi tutto ciò che riesco a reperire.
In un recente blitz nella capitale del Regno Unito mi sono trovato di fronte a questo libro usato (per la modica cifra di 2 sole sterline: in pratica un piccolo miracolo londinese, visti i prezzi correnti); l'ho preso e ne sono rimasto fulminato.
I Lizzy - per chi non li abbia mai nemmeno sentiti per caso - erano un gruppo irlandese dedito a un rock piuttosto duro, ma con punte di intimismo e qualche sfumatura folk (magari conoscete il loro classico "Whiskey in the jar", ossia l'adattamento del pezzo tradizionale irlandese in chiave rockettara). Una band che ha sfornato brani da storia della musica, ma anche decine di pezzi che definire riempitivi sarebbe una presa per il culo: sono proprio brutti... punto.
Quello che li rendeva particolari era la volubilità (picchi e buchi neri si alternavano davvero senza mezze misure) e l'organico, composto da personaggi del calibro di Robbo dei Motorhead, Gary Moore e - appunto - Phil Lynott.
Lynott era il leader, bassista e cantante, di colore, ma irlandese come la Guinness. Ipercinetico, tormentato, in bilico perennemente tra un lato da bravo ragazzo attaccato a mamma e famiglia e uno da disgraziato eroinomane e figlio di mignotta senza cuore.
Io me lo ricordo quando Lynott è morto (ovviamente non di congestione, nè per indigestione di SlimFast): era l'inizio del 1986 e facevo seconda superiore. Un giorno comprai un giornalazzo di musica e ci trovai uno speciale su di lui, in memoriam, proprio perchè era deceduto da poco. Ma lasciamo perdere. Nel frattempo lui è diventato un mito, in 20 anni: un mito quasi solo dublinese (gli hanno anche eretto una statua in città) o al massimo inglese (ma nemmeno troppo)... comunque, cosa trovate in questo libro? In pratica più o meno tutto, dalla nascita fino alla morte di Lynott. Vita famigliare, i primi passi nella musica, il successo e il declino. La scrittura è buona e fortunatamente non tralascia le campane che suonano stonate, ossia chi non ha cose necessariamente positive da dire sul leader dei Lizzy.
Non vi farà diventare fan del gruppo, probabilmente, ma leggerlo sarà quasi catartico. Come lo sono tutte le storie di rock e morte. Lo sapete benissimo...

PS: incidentalmente è morto anche l'autore del libro, un blasonato giornalista rock inglese della vecchia guardia di Kerrang. Ve lo dico così, con nonchalance.

venerdì, ottobre 06, 2006

AA.VV. - Blood On The Scratchplate '65 (Motorsoundsrecords, 2006)

Piove, là fuori la cazzo di città fognosa è ancor più fognosa. E' pomeriggio e sembra sera. I coglioni girano, il direttore sbadiglia, il McMerdintosh ronza davanti al mio muso e ho voglia di bere mezza bottiglia di Jack e coca cola. Poi suona il cellulare ed è quello sfigato che vuole farmi lavorare coi pazzi. Magari gratis.
Insomma, il rock è nel letamaio, in questa giornata. E mi ha trascinato con la testa proprio sotto al liquame. Ma...
Ma poi la salvezza arriva dall'Irlanda. E non è un fusto di Guinness in omaggio, collegato direttamente alla vena più gonfia dell'avambraccio. Nossignore.
La salvezza si presenta sotto forma di un cd compilation, licenziato dalla neoetichetta Motorsoundsrecords, che giace sulla scrivania.
Un po' di numeri? 10 band, 21 brani, una spilletta e un adesivo in allegato. L'iconografia può ingannare: la donna-diavolessa pronta all'accoppiamento richiama un po' di becerismo roghenroll tipo "Hey amici, quanto sono fichi i Social Distortion, facciamo i rocker maledetti". Invece, per fortuna, questa compilazione è esattamente ciò che il press kit descrive: un assemblato di cazzute, bavose, puzzolenti e fichissime band di blues punk, lo-fi trash, garage, rock'n'roll.
Certo, nulla di nuovo sul fronte occidentale e qualche riff lo si è già più che sentito. Ma ovviamente non è quello che conta di più. Ascoltando questi generi non deve mai mancare la giusta dose di sporcizia, impeto, fuzz, tribalismo e raucedine. Qui ce n'è a bizzeffe. E a dispensarla sono gruppi dai quattro angoli del mondo... Giappone, Irlanda, Italia, Olanda, USA, UK, Belgio.
Fan delle intemperanze di Oblivians, Immortal Lee County Killers, Flesh Eaters, Gun Club, Sonics, Bob Log, Pussy Galore e tutta la schiera di degenerati che già dovete avere richiamato alla mente... questo è per voi.
Nessuna di queste band, con molta probabilità, avrà mai successo. Ma è anche per questo che lo fanno... perchè, come dice nelle liner notes Andy (il boss dell'etichetta), una volta che hai il rock'n'roll sei fottuto. A tal proposito devo ricordarmi di chiedergli una percentuale, perchè questa è senza ombra di dubbio una mia frase.
Onore e gloria a Childish Thoughts, Mudlow, Motorsounds, Routes, Rock'n'Roll Monkey & the Robots, Surgens, Urges, Keepers, Tupelo Incident, Super Sexy Boy 1986.
Ottimo.

(apparsa su Sodapop)

mercoledì, luglio 19, 2006

Beasts of Bourbon - the low road (1991, Red Eye/Polydor)

Le Bestie del Bourbon erano abituate a vedere canguri e koala che gli attraversavano la strada mentre vagavano in mezzo a mezzi deserti e piane brulle. Ci siamo capiti: Australia, baby.
Le Bestie del Bourbon, nel 1991, firmavano il capitolo finale della loro discografia non postuma.
Quattro album, quattro.

"The low road" è l'ultimo lavoro della band prima di esplodere. E, a onor del vero, nemmeno il più devastante. Per l'impatto ruvido e la forza abrasiva ci si deve rivolgere a cosette come "Sour mash", tanto per dirne una. O a "The axeman's jazz".
Quello che abbiamo qui è, invece, un ritratto di quelli che vanno annusati, sentiti e vissuti, per essere compresi al 100%. Uno di quei capolavori-non capolavori. Manifesti di vita, istantanee apparentemente sceme che riviste ad anni di distanza fanno più effetto di un quadro di Magritte.
Lo sentite il sapore della polvere sulla lingua? E il gusto del sangue in gola? Perchè "The low road" è questo. E' il sapore degli anni Ottanta che se vanno, dei vent'anni che diventano trenta, delle abitudini che non sembrano voler cambiare anche se tutto là fuori ti dice "CHE CAZZO STAI FACENDO!?!?". E' il retrogusto di morte e birra che ti trovi sulla lingua dopo 10 anni di rock'n'roll life, in cui quasi quasi eri una star, anche se non avevi i soldi per comprarti un paio di anfibi nuovi. Ma ogni sera era una festa o quasi.

Quando ti rendi conto che forse tua madre aveva ragione quando ti diceva certe cose, che tuo padre non aveva tutti i torti, iniziano i casini. Ti senti un cretino e la prima tentazione è quella di mollare tutto e maturare. Però chitarre e amplificatori sono appiccicosi. Non ti puoi staccare così facilmente. E allora partorisci un album "maturo". O così ti piace credere.
Ma non prendiamoci in giro. Anche se togli un po' di distorsione e canti un po' più melodico (magari con un paio di fraseggi funky o vagamente country), se avevi il diavolo in corpo, te lo tieni. Non se ne va così facilmente.
Ecco, questo disco è così. Come se la sacra triade Salmon\Jones\Perkins avesse avuto bisogno di una parentesi rassicurante. Più per gli altri che per loro. A tratti sembrano dire "Ok ragazzi, no problem. Siamo onesti musicisti cresciuti ed esperti. Non i selvaggi che conoscevate".
Ma. Ma. Ma... non fate finta con noi. Perchè "Chase the dragon" parla da sola, tossica e tagliente come sapete voi. E poi quelle due cover: "Ride on" (premiata ditta Young\Scott\Young, cari miei) e "Cocksucker blues" (Jagger\Richards s.p.a.).

Cercavate di prendervi in giro e di prenderci in giro. Sì. Ma per fortuna non ci siete riusciti, Bestie del Bourbon. Per fortuna: perchè in cuor vostro sapevate anche voi che quello che ci dicono per scoraggiarci non è vero. E quando lo è ci si deve girare dall'altra parte e negare anche l'evidenza. Questo è il rock, non un battesimo a Tropea. Niente dolci e ravvedimenti. Solo tagli, ferite, chitarre, alcool e un po' di sassi ad altezza cuore. Per proteggerci un po'
Quindi, fallita la presa per il culo cosmica, vi siete sciolti. Ottimo. E qui è la grandezza di un disco come questo: è un monito.
Ricordati che devi morire? No. Ricordati che puoi morire, piuttosto. E se non vuoi morire devi prendere la vita a coltellate nelle reni.
E, soprattutto, attaccare il distorsore e non stare a sentire chi ti dice cazzate.

Amen.

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